Viaggio a Nord

Guidare mi ha sempre affascinato, anzi non proprio, posso dire che semplicemente mi è sempre piaciuto, non c'è stato giorno della mia vita in cui quando dovevo prendere l'auto mi sentivo svogliato. Ed è così che ogni Gennaio poco dopo le feste natalizie intraprendevo il mio viaggio verso nord per andare a trovare la vecchia e cara zia Carol. Il freddo non rappresentava un ostacolo. Per un buon canadese che si rispetti il freddo non può rappresentare un ostacolo. Adoro la guida, si ma sono prudente, non mi piace correre troppo, nemmeno andare troppo piano ma trovo bello condurre con stile l'auto un po' ovunque senza farsi prendere dal panico e godendosi il paesaggio. Anche questo è viaggiare. I bagagli erano ormai pronti, la mattina in cui partì era limpida e solare. Faceva circa quindici gradi sotto lo zero, non male ma dirigendomi a nord sapevo cosa mi aspettava. Caricai le catene, riempì un thermos di cioccolata bollente, un grande thermos affidabile e indistruttibile. Caricai una piccola scorta di viveri, non si sa mai quando si intraprende un lungo viaggio in strade semi desolate magari dominate dalla neve e da ghiaccio. Presi con me poi tutto il necessario per gli immediati lavori di manutenzione che potevano servire: un caricabatterie per auto, lampadine di scorta, una torcia a dinamo, delle corde, coperte pesanti, tre taniche di benzina, qualche litro di olio per motore, bocce d'acqua. Sembrava esserci tutto. Chiusi la casa, nel frattempo l'auto era già in moto e vedevo ergersi una colonna di fumo bianco proprio dal tubo di scappamento. Carol era già stata avvisata. Sarei sopraggiunto a casa sua dopo circa ventidue ore di viaggio, compresa qualche tappa qua e la. Partii dal vialetto di casa piano piano perché la strada era leggermente ghiacciata, mi mischiai nel traffico cittadino come un mazzo di carte in una partita di poker, attraversai la città e trascorsi qualche ora nel chiassoso traffico ma poi, imboccai l'uscita della statale e mi ritrovai in una strada che conduceva esattamente a nord con un traffico piuttosto modesto. L'auto era ben calda, mi accostai e decisi di togliermi giubbotto e guanti per una guida più confortevole. Ripartii, freccia a sinistra, immissione e via, raggiunta la quinta accesi l'autoradio ma non davano niente di interessante così mi lasciai guidare dal delicato pianoforte di Erik Satie. Ogni tanto occorreva qualche sorpasso, qualche tir piegato dal vento freddo e dal gelo arrancava lungo qualche salita, erano facili prede da superare. La strada era piuttosto pulita il sole ora si scagliava nel cielo senza fare complimenti. Mi fermai a fare pipì, poi ripartii, durante la guida mangiai qualche dolcetto che mi ero preparato, continuavo a guidare prendendo le curve dolcemente andando tranquillo godendomi l'infinita e sterminata quantità di neve che si rifletteva sui miei occhiali da sole. Mi alternavo tra colline pezzi di pianura, alti e bassi in mezzo alle conifere piegate dalla neve. Dopo qualche ora di viaggio pensai che era ora di bere un sorso di cioccolata calda così svoltai su una piazzola di sosta scesi dall'auto, misi il giubbotto, guanti e bevvi un po' di quel liquido rovente volgendo lo sguardo al bosco proprio di fronte a me; mi rilassava. L'aria era pungente fredda freddissima e le conifere così solitarie. Poi ebbi un incontro insolito, un'alce, si posizionò a circa trenta metri da me e mi fissava, mi fissava solenne, il suo respiro si faceva nebbiolina e poco dopo se ne andò. Ripresi il viaggio mi fermai per pranzo feci rifornimento, e poi mi lanciai di nuovo fino a sera. Cenai in una piccola casa ad un lato della strada, una specie di osteria vicino ad una pompa di benzina. Quando andai a riprendere l'auto dall'altra parte della carreggiata vidi un'altra alce che per qualche motivo mi sembrava essere identica all'altra, almeno, nel suo modo di fare beffardo, guardandomi con insistenza, masticando, sbuffando, per poi andarsene senza che io contassi più nulla. Ripresi il viaggio con qualche perplessità, su e giù per le colline, su e giù per piccoli monti, sempre un po' in salita, sempre verso nord, ammirando a ovest per quanto potessi scorgerlo, il tramonto rovente e i riflessi sulla ionosfera degli ultimi raggi di sole. La penombra, i miei fari ancora erano meno lucenti della sagoma lucente surreale che avvolgeva il panorama, poi ad un tratto il buio. Il luccicare dell'asfalto, spesso mi dava l'impressione che un'invisibile lastra di ghiaccio si fosse formata ma poi qualche mezzo spargisale mi faceva capire che ero ancora al sicuro. Prima o poi un tratto di strada peggiore mi sarebbe capitato, come tutti gli anni, del resto.

Il cielo sembrava limpido, sgattaiolai su diversi tornanti arrampicandomi come una lince, salendo scendendo, sciogliendo i nodi della strada, attraversai strade a strapiombo che si ergevano sopra fitti boschi di conifere dormienti come soldati in attesa di affrontare un battaglione l'indomani, quasi un sonno soffocato e la neve che li teneva pressati, questi soldati, i loro rami pesanti, quasi collassati e mi sembrava di dover fare piano. Mi sembrava di dover andare piano per non svegliarli. Poi ad un certo punto il cielo si annuvolò, in realtà più velocemente del previsto, il termometro segnava trenta gradi sotto lo zero ma quando iniziò a nevicare ne segnava dodici circa. La neve scendeva fitta e decisi di fermarmi per montare le catene. La strada che avevo preso non era più molto battuta e c'erano già strati di ghiaccio e neve qua e la. Mentre pazientemente montavo le catene proprio dal ciglio della strada apparve un'altra alce, io ero chino e mi fece paura guardarla da quella posizione. Era mastodontica. Mi guardava quasi criticandomi mi guardava con quegli occhi lucidi, masticando, ma il suo respiro non si faceva più nebbia. Mi alzai e lei scappò via. Allora entrai in auto sbattendo la porta mi chiusi dentro, mi batteva forte il cuore. Forte fortissimo. Sentivo l'adrenalina corrermi lungo le vene fino al cervello. Di impulso montai le catene più velocemente che potevo e partì di nuovo. Non ero sereno, ogni tanto avevo l'impressione di correre troppo, ogni tanto mi sembrava di sbagliare marcia. Poi dopo qualche ora mi calmai, avevo un po' di sonno ma non volevo di certo interrompere la guida. Non potevo fermarmi ora, la neve mi avrebbe completamente ricoperto e chissà io che fine avrei fatto, magari morto asfissiato dagli stessi fumi incombusti del mio motore. La neve sembrava sempre più fitta, più alta, le previsioni però non parlavano di una tormenta, avevo l'impressione di aver sbagliato strada ma continuai. Mi fermai per controllare la cartina, la direzione sembrava giusta. Continuai. E continuai ancora. Poi ripensai all'alce, e sulla mia mente riaffiorarono molti ricordi, alcuni sensi di colpa che pensavo smarriti, ansie, e poi un fatto. Una cosa che andava sistemata, un rimorso. Possibile che l'alce potesse collegarmi a tutte queste cose? Probabilmente era solo l'ansia causata dal maltempo. I tergicristalli ogni tanto stridevano e si muovevano repentinamente contro la neve che fioccava a palate sul mio parabrezza. L'odore di umido penetrava dalle guarnizioni dell'auto, sentivo il freddo salirmi ai piedi e regolai di conseguenza il riscaldamento. Un rimorso si, qualcosa che andava sistemato. Poi di colpo, quasi come un sasso piombato dal cielo mi trovai l'alce, e giuro era sempre lei, l'alce a sbarrarmi la strada, inchiodai sbandando e mi fermai di lato proprio a qualche centimetro dal suo muso. Per poco non finivo fuori strada. E mi guardava, guardandomi respirava sbuffando e ben presto si creò condensa sul mio finestrino. Sparì in un baleno.

Rimisi incredulo l'auto in carreggiata e il cuore pompava più sangue di quanto può fare un pozzo petrolifero in piena attività. Appoggiai la fronte sul volante, poi il rimorso si fece lacerante quasi un incubo e l'ansia mi strinse sulla sua morsa agghiacciante, avevo caldo avevo freddo. Ripresi la guida verso nord iniziando a pensare come poter mettere fine a quel rimorso. Le cose andavano sistemate. Si sistemate, piansi, mentre guidavo, urlai contro il parabrezza, imprecai, sudai e presi una decisione. Tutto ad un tratto mi sentii meno pesante, il cielo si era aperto ora. “Si farò così” mormorai tra me e me. Poi l'alba, sorridente abbagliante lungo una discesa lunghissima, ero un po' in ritardo sulla tabella di marcia e ricordo che ridevo e urlavo piangevo ringraziavo la vita e pensai “sono arrivato, zia Carol sono qui sono io e sono io come non lo sono mai stato”.

Il mio amico

In quel periodo, mi piaceva rifugiarmi nel bosco invece di fare i compiti di scuola. Non dovevo fare altro che tornare a casa, riporre lo zainetto pranzare e poi erano due le cose che colmavano la mia solitudine. La TV, o il verde che avvolgeva la mia casa. Della TV ben presto mi stufai. Mamma lavorava duro per mantenermi ed era via fino a sera, mi faceva trovare sempre il pranzo pronto bastava riscaldarlo nel microonde. Ogni giorno prima dello scoccare della campanella guardavo fuori dalla finestra dal mio banchetto aspettando che la lezione finisse, scrutavo gli alberi gli abeti i larici e i castagni che ancora non avevano perso le foglie. Eppure l'autunno era arrivato. Eppure ogni giorno dovevo colmare quel vuoto e mi spingevo dentro il bosco, fitto per non ricordarmi che la scuola era iniziata, per dimenticare i miei compagni di classe che per me non erano tanto diversi da delle figurine animate. Esploravo ogni giorno nuove zone, riferivo tutti i particolari su una cartina molto approssimativa ma mi faceva sentire speciale fare l'esploratore. C'erano tante cose interessanti nel bosco, funghi dai colori più strani, insetti di tutti i tipi, l'odore del legno fradicio era pungente e quando c'era un po' di vento la foresta cantava, come un vecchio signore accaldato che sente la brezza. Ma tutto era insipido se paragonato a quello che doveva accadere dopo. Lui, il mio amico, lo conobbi a ricreazione mentre osservavo uno strano sasso insolitamente liscio che avevo ritrovato il giorno prima nel sottobosco. Sembrava fosse molto interessato al mio sasso e così iniziammo a parlare, scoprii ben presto che quel ragazzino stava seduto ad un banchetto di qualche classe più in la rispetto alla mia. Inizialmente i nostri incontri si limitavano alla ricreazione, e devo dire, che mi affascinava. Era molto sicuro di se, si distingueva dagli altri ragazzini, sembrava essere pieno di un'energia a me ignota. Non ci volle molto perché lo invitassi a casa, il pretesto era di fare i compiti del dopo scuola ma in realtà entrambi ogni volta ci perdevano nei discorsi più disparati. Si parlava dei professori, si parlava delle nostre famiglie, ma poi un giorno quando tutti i discorsi fatti erano saturi e ovviamente i compiti erano ancora da finire gli proposi di seguirmi nel bosco.

Il bosco allora mi sembrava prendere una nuova vita una nuova forma, ciò che avevo già visto e rivisto con lui al mio fianco prendeva una piega inaspettata, una nuova storia come se avessi avuto occhi diversi. A volte non mi sembrava più lo stesso bosco e i colori dell'autunno che ormai lasciava posto all'inverno non sembravano nemmeno più gli stessi. Poi, il tempo passava e inesorabilmente volgeva la sera, lui doveva andarsene, a casa sua intendo. In quell'istante ritornava dentro di me un vuoto, la malinconia la tristezza. Lui era il mio amico era diventato il mio punto di riferimento e davvero, ero solo un piccolo ragazzino ma la vita sembrava meno amara con lui. I suoi punti di vista mi affascinavano a tal punto che prima di addormentarmi facevo l'elenco delle cose che avrei potuto analizzare insieme a lui. Un giorno, avvenne un fatto particolare, un mio compagno di classe, mi confidò che lui il mio amico, il mio carissimo amico aveva una brutta reputazione. Giravano voci che era un po' violento e che non era un tipo di cui fidarsi; poco raccomandabile insomma. Queste voci vennero al mio orecchio durante una settimana in cui egli fu costretto a casa per l'influenza. Stetti abbastanza male per quelle affermazioni ma non andai a trovarlo perché non avevo mai messo piede in casa sua. Finalmente un pomeriggio lui si presento davanti l'uscio di casa mia e bastò la sua visione per rendermi conto che non me ne fregava niente delle chiacchiere che avevo sentito. Lui era il mio amico e io mi ci trovavo bene, lui mi confortava mi dava la sicurezza che mi calmava. Colmava i miei pomeriggi e sapevamo parlare di mille cose. Cosa importava se qualcun altro mi aveva messo in guardia? Da cosa poi? Arrivò l'inverno, ci divertivamo con la neve, purtroppo i voti però non si alzavano dall'insufficienza ma noi non ce ne curavamo poi molto. Mia madre non aveva tempo di andare a parlare con i professori, quanto ai genitori del mio amico, beh devo confessare che non li ho mai visti, me ne ha sempre parlato con un gran interesse ma spesso ho avuto l'impressione che mentisse. Non importa io non volevo indagare a me bastava lui, che lui mi venisse a trovare e potessimo passare insieme dei bei pomeriggi spensierati. Fu così fino al protrarsi della primavera, il Natale, festa tanto attesa quell'anno passò in secondo piano. Mi interessavo solo al mio amico. Ricordo che un giorno venne a trovarmi con una stecca di cioccolata nuova nuova, non so dove l'aveva presa ma mi commossi quando seppi che voleva dividerla con me. Eravamo fuori da tutto e da tutti io e lui, il tempo scorreva, il mondo poteva anche essere un fetido posto in cui vivere ma bastava ci fosse lui con me. E poi il mondo non può essere mai fetido con un amico così. Durante la primavera facevamo lunghe passeggiate, lunghe lunghissime, le giornate si stiracchiavano l'aria era frizzante e tiepida, le pagine dei nostri quaderni sempre bianche ma andava bene così. Andò bene così fino ad un certo punto perché poi quando giunse l'estate fummo entrambi bocciati, non mi resi immediatamente conto delle conseguenze di ciò. So solo che un giorno lui, venne da me ed era molto triste, mi ricordo che non avevo il coraggio di parargli di chiedergli nulla. Ci salutammo la sera con malinconia. Il giorno seguente non si presentò e non si presentò mai più alla mia porta e io come uno stupido l'avevo capito che sarebbe finita così. E lui, il mio amico, non l'ho più rivisto, ora so, che avrei dovuto indagare maggiormente sul suo conto, ora sono più maturo e mi rendo conto che non dovevo lasciarmelo scappare, le parole non dette mi bruciano. Quel vuoto da colmare dentro di me c'è ancora ma ora che sono uomo avrei tanti modi per colmarlo, l'odio, l'alcool, la droga il fumo. Per fortuna mi tengo lontano da tutte queste cose, forse questo mi differenzia da tutti i miei ex compagni di classe cresciuti e spero che questo differenzi anche lui, il Mio Amico.

"Record" Edizione 2085 (Settembre)

E' mio dovere mettere in guardia la popolazione dai cubicoli adibiti alla realtà virtuale, soprattutto ora che sono diventati di facile impiego domestico. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio problema fisico mentale e ad effetti collaterali sfortunatamente non previsti. E' oltremodo vero che grazie a queste macchine la realtà virtuale diventa quasi indistinguibile dalla "vera" realtà, se così possiamo definirla, tuttavia credo che dovremo limitare l'uso di queste apparecchiature. Durante i miei esperimenti all'accademia ho preso in considerazione vari soggetti per tipologia d'età e sessi. Una parte dei soggetti in questione aveva vissuto prima della grande catastrofe del 2060, mentre l'altra considerevole fetta degli individui era nata dopo il terribile disastro. Inutile dilungarmi su cose che tutti sicuramente avrete studiato a scuola, il mondo cambiò terribilmente, come tutti voi sapete, durante quel terribile disastro. Ciò che è certo, e soprattutto il fatto più importante su cui voglio soffermarmi e che dopo quel giorno la natura, così come l'uomo la conosceva non esiste più. Le nuove generazioni nascono su un pianeta grigio senza quasi nessuna traccia di verde dove l'impero vegetale è in via di estinzione se non nelle serre automatizzate, le generazioni precedenti hanno invece vissuto per un certo periodo in un mondo se così possiamo definirlo, "normale". I cubicoli adibiti alla realtà virtuale sono in grado di riprodurre atmosfere e luoghi incontaminati di indubbia perfezione. I soggetti più anziani possono sperimentare nuovamente, quindi, le sensazioni di un mondo perduto ma a loro familiare in quanto appartenente alla loro epoca, il problema sono le nuove generazioni. Ci troviamo con trentenni affetti da seri problemi comportamentali, nevrosi, emicranie fortissime, questo dopo aver "assaporato" per così dire anche se solo virtualmente com'era la vita sul nostro pianeta qualche decade fa. Principalmente questi ragazzi non hanno potuto da bambini sperimentare alcuni semplici e straordinari piaceri della vita, quali per esempio passeggiare in un prato verde, una volta immersi nei cubicoli non vogliono più riemergere, rimangono connessi delle ore e nonostante sia fortemente sconsigliato abusare di questo mezzo la gran parte dei giovani non se ne cura. Il risultato è uno squilibrio tra ciò che il loro cervello percepisce con reale e ciò che non è reale. Siamo arrivati al punto in cui per assimilare queste straordinarie sensazioni, le nuove generazioni cadono in depressione, non lavorano, le loro vite affettive si dividono e cercano di dedicare il maggior tempo possibile alla seconda vita loro concessa. Il mio consiglio è sicuramente di evitare queste macchine, statene alla larga, la legge dovrebbe vietarle e la loro dipendenza è letale.

Diario di una persona attenta

Sono sempre stato una persona molto attenta, se per attenta si definisce una persona che fa caso ai particolari, anche i più piccoli. Non ho mai pensato di essere una persona che si discosti dalla media, ne per intelligenza ne fisicamente, devo ammettere però che ci sono un sacco di situazioni che mi danno fastidio, tra queste la cosa non potevo sopportare era il modo con cui mi guardava il fruttivendolo. Quel bastardo esercitava proprio di fronte al mio palazzo. Ogni mattina scendevo di corsa le scale, tenevo con i denti i miei guanti mentre mi davo da fare per allacciarmi il cappotto, una volta al piano terra facevo scattare la serratura elettronica e lui era li, dall'altro lato della strada, braccia conserte e sguardo disinteressato. Mi allontanavo correndo verso la fermata dell'autobus. In quel breve percorso sentivo un senso di colpa e l'aria farsi più pesante, se mi giravo distrattamente lui era li, a fissarmi beffardo, "bastardo!" pensavo ma non facevo a tempo ad imprecare a lungo l'autobus era sempre puntuale. La sera rincasando il negozio era quasi sempre ormai chiuso ma quando agivo sulla serratura di casa, ogni volta mi aspettavo un agguato un'imboscata una vendetta. Si, avevo la coscienza sporca, non che ora sia pulita siamo chiari ma all'epoca tutto era diverso. Per esempio quei luridi piedipiatti che vedevo passeggiare lungo il marciapiede ogni mattina sapevano quello che pensavo, inoltre la vecchietta che mi guardava dal finestrino dell'autobus pensava a me come un giovane dagli atti impuri. La signora che distribuiva le vivande in mensa era al corrente del fatto che non mi lavavo mai le mani dopo essere stato in bagno, per questo mi odiava. Mi odiava la cassiera del supermercato dove mi recavo abitualmente, lei sapeva che non rimettevo mai al suo posto la merce dopo averla valutata. I pompieri che vedevo passare mi guardavano storto dai finestrini dei loro autocarri, un breve ma intenso sguardo d'odio ed ira verso me e la mia abitazione dove probabilmente potevo essermi scordato di aver chiuso il gas. Al lavoro tutti mi odiavano, questo è matematico direte, non proprio. L'uomo che riforniva l'acqua mi odiava più di tutti: aveva capito che rubavo qualche goccia in più dalla bolla di plastica per riempire la mia bottiglia personale anziché usare un bicchiere, pagavo questa bravata con sguardi che sembravano ostentare l'omicidio. Il mio datore di lavoro mi punzecchiava in tutti i modi, per esempio una volta mi impose di finire il lavoro entro la fine della settimana dicendo che era importante per tutti, la pena era un'ingente perdita di danaro per l'intera società. Faceva così non perché si fidasse di me, ma perché così facendo avrebbe fatto in modo che tutti potessero odiarmi all'unanimità. Il colmo fu quando attraversando la strada sulle strisce pedonali un'auto quasi non mi investiva. Era un segno. Decisi così di mettere fine alla mia vita. Proprio qualche isolato più in la c'era un edificio a diciotto piani dal quale avrei potuto lanciarmi e porre fine a questo tormento. Innanzitutto dovevo essere pronto ad ogni evenienza, non dovevo fallire. Se l'ascensore che portava al tetto fosse stato fuori uso, allora avrei dovuto fare tutti i diciotto piani a piedi. Iniziai così ogni mattina all'alba un serrato allenamento per poter così affrontare tutti i gradini di quel palazzo in un sol colpo. Salivo e scendevo le scale del mio palazzo con ossessione, sudando e pompando sangue a più non posso. Ogni giorno miglioravo ma non avendo tempo di farmi una doccia andavo al lavoro ricoperto da un odore piuttosto sgradevole. Per questo venivo odiato ancora di più. Una notte vidi dalla finestra dell'edificio di fronte al mio palazzo un bambino fissarmi, sicuramente con odio, abbassai la tapparella per poi rialzarla a tratti ma era sempre li. Presi il cappello la giacca e mi lanciai fuori correndo tra i vicoli stretti dei palazzi e guardandomi di tanto in tanto alle spalle, come se avessi addosso il fiato di un assassino senza scrupoli. Corsi e mi fermai ansimando appoggiandomi ad un semaforo. Sentii una voce roca proprio dietro di me, - Amico cerchi qualcosa? Mi girai di scatto focalizzai dopo qualche istante un uomo – Amico parlo con te cerchi qualcosa? Lo fissai per alcuni istanti e replicai – Ti senti furbo e? Ti senti migliore di me con quel tuo sorriso beffardo e pieno di odio vero? Lo sconosciuto rise tra se e se e mormorò qualcosa. Lo presi di scatto e lo agganciai al muro, lui urlava si dimenava – Lasciami!, implorava. - Maledetto bastardo sei anche tu come tutti gli altri vero? Sei tu il padre di quel ragazzino che mi guardava dalla finestra vero? Sentii in lontananza delle urla, lasciai andare di colpo il poveretto e corsi quasi trascinandomi fino a casa. Mi risvegliai sul mio letto l'indomani.

Ricominciava la routine. Feci allenamento, lasciai dietro di me il fruttivendolo, incrociai nuovamente la vecchietta ma stavolta sull'autobus, ovunque ricevevo occhiatacce di acuto disprezzo. Chiusi gli occhi e volsi i miei occhi al palazzo venerandolo come un oracolo di pace e perdita di coscienza. Giunto al lavoro trovai una lettera con una proposta di licenziamento proprio sulla mia scrivania, sopra c'era scritto qualcosa che riguardava il mio stato psicofisico. Quei vermi volevano mandarmi a casa, lo sapevo che mi odiavano e firmai immediatamente liberandomi di quel peso. Non so esattamente dirvi cosa mi prese, questa volta non usai l'autobus andai a piedi, mi accorsi che la mattinata autunnale in contrasto con il grigiore delle ore precedenti si annunciava limpida, le nuvole si diradavano una ad una lasciando spazio ad un sole fresco e ad un'atmosfera pungente. Camminai minuziosamente lungo il marciapiede tracciando una traiettoria perfetta e osservando quanto più possibile le complicate strutture degli alberi ormai quasi completamente denudati dalle foglie. Nella chiamata pedonale l'attesa del semaforo era un momento per scrutare le auto proprio di fronte al mio naso, i loro conducenti. Raggi di sole di tanto in tanto riflettevano le vetrate dei palazzi creando oasi di luce sull'asfalto. Una volta a casa mi feci una bella doccia, calda ristoratrice lunga, impiegai poi tutta la mia buona volontà nel radermi e questo gesto sembrava suonare antico sulle mie membra. Uscii in accappatoio dal bagno, preparai con estrema cura la Moca e la misi sul fuoco, presi due fette biscottate un po' di miele, apri la finestra del piccolo cornicione che dava sulla strada, la cucina divenne più chiara e limpida. Il caffè sbeffeggiava come una motrice sul fornello, ne versai un po' sulla tazzina e feci colazione. Un istinto quasi automatico come fosse un'automazione primordiale mi spinse verso il mio computer, lo accesi, mi sentivo inondato da una frenetica voglia di scrivere, come una marea di creatività senza senso. Mi cambiai, il PC si era finalmente avviato, passarono poi minuti, ore senza fiato dove il respirare diventava relativo e solamente sufficiente se rapportato al flusso di parole che ero chino a digitare. Intitolai la mia breve opera “Diario di una persona attenta”. Ne stampai due copie, la prima la appoggiai sulla mia scrivania la seconda la portai con me, stretta sotto il mio braccio mentre salivo i diciotto piani di vertigine. Mi soffermo ora brevemente sul sole sfocato dal fumo di un camino scrivendo le ultime annotazioni a penna.

Le mie ultime parole:

Siamo il riflesso dei nostri sogni appassiti. Quanto è crudele la vita. Una grottesca corsa ad ostacoli pronta a fagocitarti in orribili tragedie. Per quanto mi riguarda cerco di stare alla larga da voi, eterni illusi, portatori di autorevoli dogmi provenienti da ogni parte del mondo. Venditori di false figurine.

Il pianeta dal nome impronunciabile

(il seguito di Celsius V)


Andava avanti già da un anno, questo contare i giorni terrestri in un pianeta che di terrestre aveva ben poco, se per poco si intende un pianeta da un nome impronunciabile, una razza da un nome a me sconosciuto e una stella orbitante, estremamente grande che emanava un calore senza sosta. Fui ripescato da una navetta spaziale, almeno così credo, in un posto a me ignoto anche perché forse assente sulle nostre carte stellari. Dopo che mi gettai dalla Celsius V in cerca di una morte dignitosa tutto quello che ricordo e che persi i sensi per poi risvegliarmi in una spiaggia dal sole accecante, qui nel pianeta dal nome impronunciabile, strani esseri vagavano su quella che io definii una spiaggia rovente. Il loro pellegrinare era simile ad una levitazione una sorta di brutto sogno surreale. Non avrei mai saputo dire se si trattasse di esseri super intelligenti o meno. Notavo nel paesaggio una somiglianza disarmante con la terra e anche se il clima era esageratamente caldo, l'ossigeno era presente, permettendomi di respirare senza difficoltà. La notte non esisteva, due stelle orbitavano attorno al pianeta, la prima era enorme rossa da dare la nausea, la seconda paragonabile al nostro Sole. Gli abitanti di questo straordinario mondo non dormivano. Comunicavano telepaticamente? Penso di si. Al di là della costruzione urbanistica che consisteva in file e file di cubicoli con la funzione di "case" (almeno credo), ciò che mi sorprendeva maggiormente, era la "spiaggia". Certo gli ombrelloni erano assenti, nessuno vendeva gelati, e devo confessare che le spiagge le avevo viste solo su offnet ma da quello che ho imparato, l'infrangersi dell'acqua in questo pianeta era pressoché identico alla terra.

La mia fonte di calorie e vitamine era una specie di caramella, andava masticata a lungo per poi essere inghiottita, almeno credo, e non mi faceva mancare nemmeno un briciolo di energie. Ogni giorno, se possiamo parlare di giorno terrestre, uno di quegli esseri mi portava una caramella e un di sostanze refrigeranti molto curiose perché al tatto non davano nessuno stimolo mentre se inghiottite proliferavano un intenso benessere in tutto il corpo. Il caldo era al limite della sopportazione umana. Uscivo solo quando il secondo sole, il meno forte, faceva capolino. Il sole rosso che si innalzava come un disco enorme nel cielo era qualcosa di abominevole. Mi interrogavo, cercavo di capire. Quanto antica doveva essere questa razza? Tutti preferivano starsene in "spiaggia". Di cosa vivessero. Come creassero la loro energia. Il perché non combattessero per la sopravvivenza era per me un mistero!

Passò del tempo, una notte, o più precisamente mentre dormivo, feci un sogno, dove focalizzavo una supernova, e un'esplosione accecante. Mi svegliai di colpo. Andai a guardare fuori. Realizzai l'imminente dramma. Il disco rosso altri non era che il secondo sole, troppo vecchio, stava collassando, stava diventando una supernova e questi babbei se ne stavano al sole ad arrostire senza il minimo pensiero! Dopotutto non me ne fregava un granche. Se questi babbei avevano un miliardo di anni di tecnologie alle spalle e non erano riusciti a capire che la stella fosse ormai diventata un'enorme pustola di idrogeno, beh potevano anche andarsene al diavolo! Che razza di razza di idioti. Nei giorni seguenti corsi in spiaggia più e più volte indicando il disco rosso, ricoperto fino al naso da una coperta per proteggermi dai fortissimi raggi roventi, ma nessuno mi badava. Sembrava non importasse, sembravo quasi un fantasma per loro. Almeno io, una via di uscita dovevo trovarla. Se solo avessi scoperto una qualche navicella spaziale.

La situazione non era delle migliori. Mi misi subito al lavoro rispolverando mentalmente il corso di "Astrofisica". Carta e penna non esistevano in questo mondo, ma se è per questo nemmeno sulla terra ormai da qualche decade. Per i calcoli mentali usai il chip impiantato nel lobo frontale del cervello. Un'interfaccia neurale, una specie di estensione della materia grigia che funge come una lavagna e in grado di annotare, appunti visuali eseguendo contemporaneamente complicati calcoli. Ogni membro della Celsius V ne era accessoriato. Tristemente dovetti rimuovere dalla memoria tutti i giochetti che avevo installato, quindi dovetti dire addio alle ore e ore di proiezione mentale di classici come "Space Invader" e "Duke Nukem 3D". Dovevo fare spazio alla ragione, alla verità. Dopo quasi una settimana di lavoro riuscii a teorizzare che l'esplosione della supernova era prossima. Ma quando? Come avrei fatto a tornare a casa? Anche se le coordinate terrestri erano incise in una memoria indelebile del chip come avrei potuto interpretarle in base alla mia posizione attuale per me sconosciuta? Con quale mezzo mi sarei spostato? Vennero a seguire giorni di perdizione e malessere, fagocitato nell'oblio il calore sembrava essersi fatto insostenibile. Vagavo, quando potevo, ricoperto da un tessuto bianco, uno spiraglio minuscolo all'altezza degli occhi mi permetteva di dirigermi nella giusta direzione ma anche così il calore era un tormento continuo per le mie membra. Non mi venivano quasi più fornite sostanze refrigeranti e questo era molto singolare, pensai. Fu così che nell'attesa del nulla pensai più volte di farla finita. Mi sentivo costantemente disidratato, come una lumaca su una strada di sale. Per quanti liquidi reintegrassi il caldo mi dava una spossatezza colossale. Ebbi delle allucinazioni, ripensai alla Celsius V, immaginai la terra l'erba i prati tutto ciò che non avevo mai potuto vedere dal vivo sul suolo terrestre. Piansi immensamente per la crudeltà che il destino aveva in riserbo per me, vittima di un disegno più grande con una fine prossima in un pianeta che non era il mio.

Poi un giorno, disteso sul pavimento inerme vidi dalla finestra un mezzo volante fluttuare nell'atmosfera. Era pilotato da uno di quegli esseri dal nome impronunciabile, lo trovai adagiato a qualche chilometro dalla mia abitazione, una macchina dalla forma affusolata e insolita. Scivolai dentro in quello in cui possiamo definire un abitacolo ma la console di bordo era totalmente assente da comandi. Probabilmente la navicella veniva governata con le onde telepatiche. Era tutto così strano così impossibile per me. I giorni si fecero sempre più stretti, mi sentivo l'ultimo fantasma di un regno pronto al collasso. Ripetute volte mi trascinai molto lontano in uno spasmo di dolore e in un bagno di sudore per poi risvegliarmi sempre nella mia stanza. Questo susseguirsi di azioni si ripeté con costanza per alcuni mesi. Preso dalla disperazione un giorno salii su un tetto e mi gettai a testa in giù nel vuoto. Il buio, l'oblio sogni terribili, supernove esplosioni, distorsioni spazio temporali chiudevano le mie connessioni neurali in surrogati di angosce e drammi. Mi svegliai di colpo nella mia stanza. Fu così che arrivai a pensare di essere prigioniero. Non potevo morire, non mi era concesso, non potevo andarmene o allontanarmi. Loro mi tenevano sotto controllo. Il motivo era a me ignoto.

Una mattina, mi prelevarono e mi fecero ondeggiare in un'altra abitazione. Un cubicolo bianco dove mi lasciarono per un tempo a me indefinito. Mi tenevano al limite della sopravvivenza, ebbi altre allucinazioni, non so dire per quanto tempo rimasi in balia di un'angoscia senza forma, ma li sentivo nella mia mente, li sentivo adattarsi nel mio cervello farsi spazio. Le loro onde telepatiche mi distruggevano in un susseguirsi di intermittenti spasmi. Pregai di essere morto innumerevoli volte, mi tennero in un desolato buio molto a lungo. Cercai di sbattere la testa più volte nella parete ma sembrava cedere sotto le mie forze per poi ricomporsi in uno stato di solidità totale.

Questi esseri informi devono aver usato le coordinate terrestri presenti nella mia mente per raggiungere la terra in un unico viaggio interstellare. Ciò che ricordo e che mi svegliai inerme in una spiaggia e che riconobbi i segni della civiltà umana. Poco dopo una pattuglia di ricognizione mi prelevò e mi portò in un bunker di sicurezza insieme agli altri civili. Feci domande, mi guardavano sbigottiti, come se fossi un folle, chiesi a tutti i presenti cosa stesse accadendo, rapidi accenni e poi la disarmante verità di un'invasione aliena dalle conseguenze irreversibili. Ecco cosa cercavano quegli esseri dal nome impronunciabile: un mondo nuovo, un mondo lontano dal loro destino fatale.

Illusione

La testa mi faceva un gran male. Mi sentivo confuso svuotato. Ogni qual volta mi sentivo strano mi recavo al campo di baseball tra la Market Street e la Cherry Street. Guardare i ragazzini giocare a baseball mi dava conforto e tempo per pensare. Ad ogni fuori campo volgevo lo sguardo all'ovattato e trafficato rumore proveniente dal Manhattan Bridge. Tenevo riposte le mie mani nelle generose tasche del mio lungo cappotto ma il vero freddo lo provavo dentro. La sbronza della sera prima mi aveva seccato, steso a terra come un pugile manda knock-out un fragile avversario. Il cielo plumbeo avvolgeva New York in una triste e sadica morsa fredda. Piombai ai margini della strada, alzai la mano e presi un taxi. -Mi porti a Battery Park, per cortesia. Sentivo la tensione salirmi dallo stomaco, sospirando diedi uno sguardo distratto alla distesa d'acqua alla mia sinistra. Il tassista era un uomo sulla quarantina, naso imponente non molto alto, capelli biondi e carnagione chiara, una ferita sul volto faceva pensare a un qualche tipo di colluttazione. Dovemmo fare alcune deviazioni, poi nel viadotto che portava al parco quasi mi appisolai. Il tassista suonò il clacson, mi ripresi e riconobbi Battery Park. Respirai l'aria pungente, impura, e a buon passo raggiunsi il cuore del parco. Lei mi stava aspettando, bellissima i suoi capelli rossi imperfetti e perfetti nello stesso tempo sembravano possedere la città come un pugno di carta stropicciata. Si bagnò le labbra -Ti aspettavo Gregor, poi con la sua voce fine e sensuale -Siamo pronti, io e te, per la nostra nuova vita. Mi avvicinai e la baciai, con tutto il fiato che avevo in corpo pendendo dalle sue generose e profumate labbra. Prendemmo due tazze di caffè fumanti alla Pearl Street, proprio a due passi dal parco. I miei vestiti erano puliti e il mio odore gradevole dato che mi ero fatto una doccia di prima mattina nell'hotel dove alloggiavo, lei era altrettanto curata, “chissà tra qualche giorno come sarò ridotto”, pensai. Passammo l'intera mattina passeggiando, nonostante il freddo pungente. A ora di pranzo ci fermammo in una tavola calda. Io ordinai un hamburger al sangue, patate e una birra. Lei due uova, pancetta e del latte. Mi accorsi che lo sciamare di turisti ci aveva involontariamente trascinato attorno al colosso finanziario di Wall Street, decisi allora di passare davanti al mio ex-ufficio. Fui preso da un leggero sconforto ripercorrendo mentalmente la mia carriera lavorativa. Ricordo che il lavoro a me assegnato non era noioso, nemmeno faticoso, addirittura ben remunerato: non mi mancava nulla.

Possedevo un attico nei dintorni di Frankfort Street nel quale vivevo con Susan all'inizio. La conobbi una mattina di Luglio, lei faceva la cameriera in un bar poco lontano dalla mia residenza dove mi recavo spesso per rinfrescarmi. A dire il vero era da qualche mese che ci scambiavamo sguardi fugaci, poi un giorno presi coraggio -Un caldo insopportabile vero? Lei mi guardò per un attimo sembrò dire qualcosa, una pausa -Direi che posso ritenermi fortunata, indicando gli operai dall'altro lato della strada -Se facessi un lavoro così, beh allora avrei di che lamentarmi ma qui, qui non si sta mica male dopotutto non trova? Osservai la pelle delle sue mani, in quell'istante mi domandai quanto potevano essere morbide e profumate. -Certo, risposi, ed è per questo che vengo qui per una fresca limonata. -A davvero? Replicò lei. -E' solo per la limonata? Disse ridendo e porgendo le mani all'altezza delle sue labbra. In quell'istante mi bloccai, capii che era lei che stava tentando di sedurmi. Per un secondo mi sentii spaesato come se avessi perso le redini del mio cavallo. Chi dettava le regole del gioco?

Il nostro progetto, o meglio il suo progetto, al quale mi ero unito, consisteva nel vendere tutti i nostri averi. A partire dalla liquidazione del conto in banca, la vendita delle azioni, la vendita dell'attico, l'auto, la bicicletta e ogni singolo mobile. Volevamo rimanere solamente con i vestiti che portavamo addosso e qualche soldo per sopravvivere. Susan sosteneva che dovevamo vivere nella miseria e rialzarci da soli. Solo così avremmo potuto apprezzare veramente la vita, solo così potevamo riscattarci nei confronti di questa generosa città. La mia riluttanza non era poca quando udii queste parole. Poi però dentro di me si fece largo l'idea che ciò fosse possibile. Gradualmente, iniziammo a privarci delle cose più ovvie, l'acqua ad esempio: aprivamo il rubinetto il meno possibile. Niente riscaldamento d'inverno, niente aria condizionata d'estate, cibo ai minimi termini e comunque solo piatti semplici e facilmente reperibili. Niente auto, quando si poteva sempre e solo a piedi. Nel frattempo mi ero già licenziato da molto e Susan aveva abbandonato il suo lavoro. La cosa andò avanti molti mesi ma realizzai veramente che non potevo più tornare indietro quando demmo in beneficenza tutte le mie liquidità comprese quelle ricavate dalla vendita del mio appartamento tenendone per noi una parte irrisoria. Susan poi volle una separazione temporanea di due mesi, due mesi nei quali avremmo dovuto cavarcela da soli, alloggiando in qualche albergo solo quando eravamo allo stremo delle nostre forze.

Passati i due mesi ora che Susan era di nuovo con me iniziavo a preoccuparmi di meno. Da Battery Park in poi il mio umore era migliorato notevolmente. Camminammo lungo Liberty Street lasciandoci Wall Street alle nostre spalle. L'inverno era rigido ma riuscivamo a vincere sulla notte, spesso ci coricavamo vicino a qualche tubatura dell'acqua calda in fase di rottura oppure nascosti nell'anticamera di qualche condominio. Le giornate le passavamo ai parchi. I soldi che avevamo ci sarebbero bastati per mangiare ancora un mese circa. Una mattina mi stropicciai gli occhi con un cielo straordinariamente limpido e pulito. Avevamo passato la notte dentro alcuni cassonetti dell'immondizia. Persi per un attimo lo sguardo sulla scia di un aereo di linea, immediatamente dopo realizzai che Susan non era li con me. Speravo fosse un gioco, lei sapeva dove amavo andare quando mi sentivo confuso, forse mi stava aspettando al campo da baseball, dopotutto c'eravamo accampati vicino alla strada principale che porta al ponte di Manhattan. Sentivo però una costante angoscia crescermi dentro, non esitai, corsi fra le fumose strade di Market Street, arrivai al mio tanto amato campetto da baseball e aspettai, riprendendo fiato per la disperata corsa, passarono delle ore ma di lei nessuna traccia. Presi un taxi con gli ultimissimi soldi a me rimasti -Vado all'Empire Fultron Ferry State Park, pronunciai stridulo -Una delle più belle viste di New York vero? Sorrise il tassista. “Sicuramente sarà li” mormorai tra me e me “dopotutto amavamo passare spesso le ultime ore della giornata osservando l'inconfondibile skyline newyorchese. Lei non c'era. Piansi in ginocchio tra le rocce umide e scivolose mentre sentivo il freddo impossessarsi del mio collo come un laccio di morte, presi le ultime forze che avevo e trovai un posto per coricarmi sperando di non morire assiderato. L'indomani, mi accorsi che ero completamente senza denaro. "Che stupido!" pensai, solo allora realizzai che non avevo più un dollaro, ma perché diavolo non ci avevo pensato prima?

Caro lettore, questa storia sembra improbabile lo so. Io sono Kurt Trevor. Originario del Minnesota e trasferitomi cinque anni fa qui a New York. Sono passati quasi due anni dal ritrovamento di questo pezzo di carta che ora ho trascritto qui per voi, esso giaceva nelle mani assiderate di quel pover uomo che risponde al nome di Gregor. Della sua compagna Susan non c'è traccia alcuna. Ho fatto delle indagini, ho interrogato tutti i gestori dei bar nella Frankfort Street ma niente. Sembra che nessuna ragazza con i capelli rossi abbia mai messo piede come cameriera in nessuno di quei posti ma l'attendibilità delle mie indagini risulta sfocata dal tempo. L'unica cosa che posso fare, è diffondere la storia di un uomo che forse ha voluto credere in ciò che non c'era. Siate voi dunque, liberi di credere o meno.

Ecco perchè scrivo

Scrivo perchè mi sono rotto il naso troppe volte tra le soffocanti mura di questa carcassa chiamata società. Scrivo perchè, perchè se fossi un gabbiano sull'oceano non dovrei preoccuparmi, giusto?. Scrivo in quanto umano. Perchè i nostri figli possano vedere le onde infrangersi sulle fondamenta del ponte di Rialto e non solamente tramite una pagina di Wikipedia. Scrivo perchè c'è qualcosa di cui vale la pena ricordare, perchè ci sono sensazioni che bisogna far sfociare, come una cascata bella e fatale. Scrivo perchè la genuinità dei pensieri senza finzioni e artefizi possano essere una delle bellezze dela vita. Scrivo perchè sono un disadattato. Scrivo perchè possa sentirmi un pochino normale, come voi giusto? Scrivo per dimenticare i fardelli terreni che tanto ossessionano la vita di ogni uomo. Scrivo per poter liberarmi di questo esocheletro di fissazioni e aspettative. Scrivo perchè probabilmente non sto troppo male e non dovrei nemmeno lamentarmi, ma scrivo, scrivo anche per l'evenienza, il possibile, l'eventuale. Scrivo scontate ovvietà, per il saggio, descrivo oasi di sapore per me stesso. Scrivo perchè sono giovane. Riscrivo ciò che è stato scritto. E allora? E quindi? La vita l'avete fatta e finita voi? La vita l'avete capita voi defunti o voi che la state vivendo? Scrivo perchè sono alla ricerca di qualcosa, si questo comporta un'amorevole sofferenza, un continuo combattere con se stessi nell'illusione di un'anima cicatrizzata e indolore. Spero di non trovare mai ciò che cerco veramente. I vecchi; trovano ciò che cercano e non importa che tu abbia venti o novant'anni. Puoi morire molto prima convinto di aver trovato quello che cercavi.

Anni '00

Cosa ne è rimasto di questi anni '90
appassiti tra le chitarre stridule
stridule come i versi dei modem analogici

piegati fra le pieghe
nastri dei VHS

L'ottimismo convenzionale
notizie di cronaca italiana
e non un dito puntato oltre confine
il non riciclaggio
un orizzonte di gommapiuma
e risorse
terrestri
senza pensieri

Ricorderemo questi anni '90
ora più che mai,
ricorderemo questi anni
perché non c'è niente di meglio da ricordare

Brezza Cosmica

Dossier del settore 9° data: 13/04/2242

Astronauta: Kurk Forebrush

Codice di controllo: #34df23^adr35_9


Doveva essere un'operazione di routine, un sovraccarico nel reattore numero 3 aveva distrutto alcune condutture di raffreddamento. Nel mio cubicolo risuonò un cicalino accompagnato da un messaggio che invitava a essere operativo il prima possibile. Raggiunsi la sala riparazioni dell'astronave e presi la mia tuta, la indossai e tramite la passerella mobile numero 7F mi recai alla camera di depressurizzazione. Un rapido check, tutto sembrava apposto, comunicai al comando di controllo che ero pronto ad uscire. Si verificò un'anomalia, catalogata in seguito come una falla nella gestione del sistema d navigazione del computer centrale. Dovetti attendere circa venti minuti perché una delle numerose lune di Saturno era in collisione con l'astronave ed era necessario rielaborare una nuova rotta.

Uscii finalmente nello spazio, guidandomi delicatamente fra il complicato sistema di reazione del reattore che per l'operazione di manutenzione era stato spento. Iniziai dapprima a rimuovere le parti danneggiate, confesso di essere stato distratto più volte dal panorama alle mie spalle: Saturno in tutta la sua maestosità circondato dai suoi imperanti anelli purpurei, un ammasso gassoso di prezioso idrogeno che la nostra spedizione avrebbe dovuto analizzare tramite l'utilizzo di una sonda.

Ebbi una specie di déjà vu, come se quel trovarmi li, nel vuoto assoluto fosse un'azione scritta nelle mie membra, le mie mani sembravano guidate da un esoscheletro di consapevolezza. Volsi lo sguardo verso lo spazio profondo e per la prima volta l'oscurità del cosmo mi sembrò confortante, calda, rassicurante. Affiorò nella mia mente una visione, il cosmo nella sua origine, concentrato in un'unica sfera densa calda ma straordinariamente familiare. Come se fosse la mia casa, quasi un'alienazione rispetto a ciò in cui mi identificavo essere: umano. In quell'istante non una voce ma un pensiero, o meglio una sensazione, qualcosa che possiamo definire come “un ricordo” non acquisito, un filo del discorso che si è insidiato tra le mie connessioni neurali. Un'ospite non atteso di cui conosci già tutto. Un monologo interiore. Quel monologo, è rimasto stampato nella mia mente con esatta lucidità e posso riportarlo con assoluta e impeccabile precisione:

Ciò che voi definite tempo è cessato di esistere per noi, alla fine della nostra evoluzione non possiamo fare altro che arrenderci e prepararci a far parte del rumore di fondo del cosmo. Così come altre decine di migliaia di razze popolanti questo universo non siamo stati capaci di cooperare per il bene della nostra civiltà. La nostra scomparsa non lascerà nessuna traccia, nulla nel nulla, storia del nulla: aneurisma generazionale.”

Poi un rumore ritmico, un po' disturbato e una voce metallica: dalla stazione di controllo giungevano istruzioni per la sostituzione dei settori danneggiati del reattore. Pensai per un attimo alla terra, ad un giardino, una bibita fresca e l'erba scuotersi leggera piegata da una brezza chiara e frizzante. Trasalii dal mio catartico momento di pace universale, la ricetrasmittente era sempre più disturbata - Santo cielo Kurk, cosa diamine sta facendo? Si sbrighi a rientrare!. Sul reattore sembrava non esserci alcun segno di guasto alcuno. Feci ritorno alla cabina di depressurizzazione. Il capitano mi venne incontro con la faccia sconvolta, silenzioso, cupo, quasi fosse divorato da un demone invisibile, straordinariamente sembrava invecchiato di almeno dieci anni – Si sieda Kurk; pronunciò con un filo di voce. - Dunque, quanto crede di essere rimasto nello spazio? - Non più di 10 minuti replicai. Il capitano trasalii e un brivido di terrore lo percosse, mi guardava con gli occhi sbarrati. - Kurk, soggiunse, lei è scomparso più di dieci anni fa e ora ha fatto ritorno sull'astronave, la davamo per disperso ma non solo, lei sembra non essere invecchiato in nessun modo!. Altri membri dell'equipaggio entrarono nella stiva e mi scrutavano curiosi, sembravano tutti invecchiati. Riaffiorò nella mia mente il messaggio che avevo ricevuto e l'ho trascritto qui su questo dossier. Sono tre settimane che sono sotto stretta sorveglianza e ormai i medici di bordo mi hanno fatto ogni possibile analisi. Non so, se sono maggiormente sconvolto dal mio brevissimo viaggio o dalla notizia che ho appreso immediatamente al mio rientro. Ora che la terra ha cessato di esistere eravamo gli unici umani sopravvissuti nell'intero universo ma non resisteremo a lungo:

La nostra scomparsa non lascerà nessuna traccia, nulla nel nulla, storia del nulla: aneurisma generazionale.”

"E' rimasta solo una consapevolezza globale deviata. Fango sporco da un barile senz'acqua. L'evoluzione terrestre rischia di essere la più veloce e nel contempo breve dell'Universo. Allo scoccare di ogni Big-Bang la costante tempo universale ha un suo scadere prefissato. Dio ha fallito e noi, siamo in ritardo rispetto alla fine del termine ormai prossimo."

Vivo in un Paese

Vivo in un paese
dove conta maggiormente
la CO2 del tuo SUV
pensa all'aerosol che dovrai fare

Sogni infranti
di bambini che giocano a pallone sulle strade
raggi e catarifrangenti
cerchioni di biciclette
pedali

Sud fantasma
trattato dai giornali come ologramma
Il Nord recesso vuole una chemio
agganciando il braccio leso al nucleare

Vivo in un paese,
ha perso il suo splendore,
cercando di risollevare vecchi miti
e marchi autorevoli,
uno stile di vita che zoppica al tempo di un motore a scoppio

Lo sguardo altrove,
gli anziani hanno fatto il loro tempo
e noi?
Noi non abbiamo tempo.
Ce l'hanno sottratto i Media.
Perché disegnano loro la strada
fra luoghi comuni,
celebrando una consapevolezza di plastica.

Vivo in un paese.

Celsius V

La storia che sto per raccontarvi non è frutto della mia pazzia bensì della follia del genere umano. Delle poche ore di vita a me ormai rimaste poco importa chi leggerà e se mai verranno prese sul serio queste parole. La desolazione alberga in me e non c'è spettacolo cosmico che possa farmi trasalire da questo torpore siderale. Ebbene, dunque, io mi chiamo Courgh, Courgh Trevor per l'esattezza.

Nato nell'anno 230 sono stato concepito proprio in questa astronave, cresciuto amorevolmente e destinato a crescere la quarta generazione di questa spedizione senza ritorno. Quando ero piccolo andavo a scuola, una scuola formata da un'unica classe. La scuola iniziava presto, ovvero a soli tre anni,

-ci sono tante cose che devi imparare Courgh.

Dicevano, e io le imparavo senza protestate, sul serio. Avevamo i computer, essi erano interconnessi con l'astronave ed era possibile consultare biblioteche virtuali, gruppi di studio, blog tutti ospitati dalla rete chiamata offnet. Offnet era ed è tuttora un surrogato di quello che chiamano sulla terra internet ma su questo, mi dilungherò più avanti. L'autosufficenza di questo cargo demoniaco si era spinta oltre ogni limite. La Celsius V era stata costruita direttamente nello spazio. Date le sue dimensioni mastodontiche era pressoché impossibile fornire una propulsione tale da alzare una così grande massa fino ad eludere la forza di gravità, gli ingegneri dunque decisero di assemblarla pezzo per pezzo nello spazio costruendo un vero e proprio cantiere approvvigionato da una moltitudine di ascensori spaziali. Spedire dalla terra materiale, manodopera e quant'altro era diventata una semplice routine scandita da un programma logistico. Ci vollero 25 anni di lavoro ininterrotto per poter portare a termine un così ambizioso progetto ma la Celsius V era fornita di tutto. Capace di generare autonomamente l'ossigeno necessario grazie a piante fatte crescere direttamente su pavimentazioni ricoperte d'acqua a più piani. Una scorta di cibo rinnovabile era composta da un allevamento animale completamente robotizzato. L'acqua veniva completamente riclicata e resa potabile in ogni sua goccia.

Era l'anno 2542 quando la Celsius V iniziò il suo viaggio, e per noi iniziava l'anno zero. Aldilà delle incredibili capacità tecniche di questa fregata esse apparivano nulle rispetto all ernome lavaggio del cervello che erano riusciti a fare gli psicologi ai nuovi abitanti di questo carcere itinerante. L'astronave era niente senza un equipaggio, ecco dunque che una notevole quantità di bambini all'epoca furono cresciuti con l'unico obiettivo di abitare la Celsius V. Selezionati duramente, istruiti, forti e sottomessi al volere degli scienziati fu loro dato un biglietto di sola andata verso le porte dell'universo. L'obiettivo della Celsius V era di entrare in contatto con potenziali nuove forme di vita e di far ritorno sulla terra. anche dopo generazioni, con una prova di vita aliena e un enorme bagaglio di esperimenti riprese analisi e quant'altro provenienti dallo spazio siderale. Non voglio dilungarmi troppo su questo chiaro fallimento.

All'età di 19 anni me ne stavo nella mia cameretta navigando su offnet. Ero solito a comunicare con i miei compagni di corso, tutti giorni mi collegavo alla pagina principale di offnet che forniva in tempo reale una comunicazione con il nostro amato pianeta terra. Ero abbastanza grande per essermi chiesto come facesse la connessione a essere in tempo reale data la distanza. Pareva ci fossero parecchie tecniche dimostrate per ottenere tali risultati, e ovviamente tali tecniche permettavano la trasmissione di un esule segnale adatto solo ad una modestissima quantità di dati. Ma non fu questo a farmi capire la verità. Offnet era una copia quasi completa dell'intero internet terrestre così come appariva qualche mese prima di questa spedizione. Per questo in realtà si trattava di un'enorme rete ma offline, i suoi contenuti per oltre 200 anni sono sempre rimasti gli stessi, salvo gli esuli contenuti aggiunti dall'equipaggio della Celsius V. Ragazzi, io sono sempre stato un gran smanettone e una volta, quasi per caso ficcando il naso qua e la scoprii una falla nella gestione del computer di bordo. Quel porco che si faceva spacciare per un sistemista di gran classe non era altro che una salsiccia spaziale senza capo ne coda. Mr Sistemista era una schiappa, lasciò il tesserino con tutte le password del computer principale proprio in sala mensa, dopo essersi ingozzato di un tiramisù al surrogato di caffè. Povero scemo. Sfruttai la combinazione password con una cartella sprotetta condivisa nel cervello centrale e da li riuscii a prendere l'intero possesso del sistema. Sotto crittografia trovai i file della verità, scomoda bollente, nessuno nella Celsius V ne era al corrente. Un documento redatto dal dipartimento aerospaziale spiegava in dettaglio che in caso di fine prossima era giusto sapere la verità, verità per altro inimagginabile e crudele quanto può solo esserlo il genere umano. In realtà i contatti con la terra erano fasulli, generati dal calcolatore e noi orbitavamo a lunga distanza dal nostro pianeta padre senza possibilità di tornare indietro. Per quel che ne sapevamo in realtà la terra poteva essere stata investita da un meteorite e noi eravamo asini interestellari guidati da una cometa a forma di carota. Bella merda vero? Confidai il tutto al mio fidato compagno di stanza, August III. August era un po' tonto, ci si era sempre chiesti come fosse stato possibile visto la ferrea selezione dei nostri geni ma così stavano i fatti. Aldilà della sua tontaggine cosmica era un bravo ragazzo, uno di quelli che non parla nemmeno se gli rubavi lo zuccherino dalle tasche. Ma che ci volevate fare, le armi erano quelle che erano, il lesto e il tonto insomma; dovevamo fare una rivolta, tanto indietro non si poteva tornare, davanti c'era il nulla ed era decisamente il caso di provare il tutto per tutto.

Facendo il finto interessato ero riuscito ad iscrivermi al corso di "lotta armata aliena". Un corso per fanatici che speravano di approdare in qualche cavolo di pianeta primordiale e fare una strage di piccoli esserini e magari, chi lo sa, bere un po' di brodo primordiale e vedere che succedeva. Fanatici insomma ma con tutte le carte in regola per il progetto di rivolta. August era il mio subordinato e ben presto imparammo a maneggiare i laser e i railgun messi a disposizione. Ore spese al poligono ad esercitarci sparando ad ologrammi grotteschi. Venne poi un giorno, nel quale fiero esibii le mie idee alla classe della lotta armata aliena, e inizialmente, tutti furono presi dallo sgomento, quasi inebetiti dalla notizia della frottola spaziale alla quale tutti avevamo preso parte. Mi presero a calci nel culo, ragazzi ero distrutto se non fosse che la sera stessa si presentarono nel mio cubicolo e mi implorarono di guidarli alla vittoria sovrana. Ebbene, così fu.

Quel gran maiale del sistemista andava sistemato, lui e la sua barbetta, sempre pronto a tirar fuori le sue credenziali di accesso e a sfoggiare passepartout di ogni genere. Lo crivellammo di colpi in sala mensa nello scompiglio generale. Alla fine sembrava un arrosto e fu così che ci imponemmno nel settore B della Celsius V. Era scattato l'allarme generale e i compartimenti si chiudevano a porte stagne. Nessun problema, le credenziali d'accesso di Mr Ebete Sistemista erano perfette al caso nostro. Prendemmo l'intera Celsius V come fosse la bastiglia senza esclusione di colpi e carneficine. Uno dei nostri fu colpito dal resto dell'equipaggio e alla fine il bilancio era per un morto dei nostri contro quarantacinque decessi della resistenza Celsius V. Gettammo i corpi nello spazio siderale. Era giunta l'ora di scoprire qual'era la rotta e dove eravamo diretti, per prima cosa dovevamo localizzare i due giroscopi principali e il programma che li comandava. Scoprimmo che il programma ci dirottava semplicemente in linea retta rispetto l'origine, ovvero le coordinate terrestri. La direzione era orientata verso il red shift cosmico. - Fantastico! Pensai, fantastico un cazzo. I giroscopi erano stati costruiti per rimischiare le carte ogni due mesi. Non segnavano la direzione giusta, venivano scombinati e appositamente segnavano rotte sbagliate. Andavano ricalibrati ma era impossibile oramai e questo significava l'aver vagato per una linea retta che retta non era senza speranza di un log per trovare la strada di ritorno. Una buffonata insomma. L'unica cosa da fare sembrava spararsi un colpo insieme al resto dell'equipaggio che era passato dalla nostra.

Vinse lo spirito di sopravvivenza.

Passarano altri vent'anni e noi eravamo qui, qui nella Celsius V senza sapere esattamente dove ci stavamo muovendo. Anni particolarmente difficili. Addirittura una volta ebbi delle allucinazioni pazzesche, sembrava che tutti si fossero trasformati in alieni verdi stile Project Firestart, un vecchio titolo per Commodore 64. Un altro periodo credevo di essere nella navicella di R-Type. Per un periodo lunghissimo ero convinto che il cosmo fosse una piscina e volevo buttarmici. Ma niente fu come quando August convinto che l'intero equipaggio fosse composto da polpette assassine prese il laser e fece fuori uno ad uno tutto l'equipaggio per poi gettarsi con una scialuppa d'emergenza verso l'ignoto. Dio solo sa dove si trova ora. Risparmiò solo me: - Fatti una bella grigliata vecchio mio – disse il caro August - e bevici sopra qualcosa con queste polpette al sangue, io me ne vado a cercare fortuna altrove ragazzo. Lasciandomi sbigottito.

Ed è così che sono rimasto l'unico nella Celsius V e ora, ora mi ritrovo alla fine. Una perdita di ossigeno nello spazio mi costringe a confinarmi in un cubicolo di fortuna, purtroppo non sono in grado di riparare il sistema di ricircolo dell'aria. L'astronave è dannatamente complicata e io ai tempi, ero troppo impegnato a giocare con Space Invader invece di seguire il corso di Ingegneria Avanzata. Certi errori si pagano con la vita. Ed eccomi qua, Courgh, Courgh Trevor per l'esattezza fissando lo spazio profondo e non avendo scoperto un cazzo di niente mi domando se magari non era meglio rimanersene davanti una birra ghiacciata in riva al mare invece di farsi catapultare come cavie nel cosmo. Colpa delle generazioni precedenti, immagino, ma i fatti stavano così.

Dunque ora indosserò la tuta e mi getterò nello spazio profondo, vagando così per l'eternità. Porto con me, ora il mio diario e se tu, lo leggerai, credici o no significa che fai parte di una razza aliena perché la razza umana, così come la conoscevo non esiste più.

Cervello Primordiale

L'empatia come segnale sinaptico tra gli individui della popolazione umana. Un'enorme cervello primordiale?

Radiotelescopio Funebre

Mi chiamo Koran, Koran Bonelli per l'esattezza, sono passati tanti anni ma solo di recente, sono riuscito a mettere le mani sul vecchio diario del mio amico Alex e posso ora, con precisione e dolore, narrarvi di questa raccapricciante storia forse frutto di un fatale incrocio di casualità o forse, parto di un universo ben più ostile e selvaggio di quanto noi crediamo.

Erano anni dedicati puramente alla ricerca quelli, usavamo, io e Alex, passeggiare lungo il cortile del dipartimento di fisica ogni qualvolta tornava la bella stagione. Ancora più rilassante, era passeggiare nella mite temperatura notturna guardando le stelle. Io e Alex eravamo a capo di un progetto atto alla ricerca di nuove forme di vita e in quanto a strumentazioni non potevamo desiderare di meglio: avevamo il pieno controllo di una serie di potenti radiotelescopi il quale compito era di sondare giorno e notte lo spazio profondo in una moltutitudine di direzioni trasmettendo poi, i segnali radio ricevuti al computer centrale che analizzandoli cercava testimonianze di una forma di vita intelligente. Un caos etereo da sciogliere come un nodo indecifrabile. Inutile dire che impiegavamo i nostri studenti nei lavori più noiosi quali la manutenzione o lo scarto a priori di segnali che davano fin da subito esiti negativi da parte dell'elaboratore. La mole di dati era così vasta da impiegare quasi una sessantina di uomini al lavoro ventiquattrore al giorno e tutto sommato i guasti erano abbastanza contenuti.

Il nostro ufficio, nonchè la sede dell'elaboratore centrale consisteva in due scrivanie ai lati della stanza posizionate in direzioni opposte, mentre al centro, riverso sulla parete, giaceva un terminale-video collegato al nostro colosso elettronico. La posizione delle scrivanie faceva in modo che i nostri sguardi non potessero mai incontrarsi in qualche forma di distrazione e ve lo giuro, non c'era luogo più silenzioso e propenso alla ricerca di quel laboratorio. Il silenzio veniva rotto unicamente da una stampante posizionata a lato del terminale; essa stampava su un'enorme bobina di carta i dati più significativi e i segnali più interessanti.

Passava il tempo e per un lunghissimo periodo i radiotelescopi non diedero alcun esito. All'inizio del progetto accadeva sovente che qualcuno degli studenti facesse capolino alla porta del nostro ufficio convinto che nei tabulati, da noi rigorosamente già ispezionati, ci fosse un segnale che poteva essere riconducibile ad una forma di vita extraterrestre. Confutavamo tale ipotesi sistematicamente e ben presto ci trovammo annoiati e sempre più demotivati. D'inverno usavamo passeggiare avanti e indietro nel nostro ufficio ricoperto di moquette guardando con lunghi silenzi il monitor del terminale a fosfori verdi finchè un giorno, un maledetto giorno si verificò qualcosa di straordinario, qualcosa di unico irripetibile. Dai tabulati dell'elaboratore in mezzo a migliaia di altri insignificanti segnali era apparsa una scritta:


"rispondete".


Ciò sembrava senza senso, si fece largo l'ipotesi che si trattasse scherzo o un guasto, questo era riconducibile al fatto che esisteva un radiotelescopio dedicato alla sola trasmissione di dati. Questi dati tradotti in radiofrequenze consistevano in frasi identiche a quella ricevuta nonchè alcune immagini, piccole descrizioni della terra e mappe del genere umano. Passò qualche giorno e nuovamente il fatto accadde. Interrogammo tutti i nostri studenti, Alex in particolare era molto arrabbiato ed era convinto che qualcuno volesse prendersi gioco di noi e fu così che alla fine quasi tutto il personale/studente se ne andò a causa dei tremendi sbalzi d'umore di Alex. Inutile dire che io e Alex dovemmo compiere una mole di lavoro inimmaginabile e che ormai, vivevamo nel nostro ufficio giorno e notte con le nostre barbe non curate e i nostri occhi rossi rigati dal sonno.

Una mattina Alex mi disse che era ora di cambiare il segnale da trasmettere e per scherzo, oppure per noia inserì la seguente frase:


"qui alex e koran dalla terra, rispondete melme intergalattiche".


Passò una settimana e tra tutti i segnali analizzati trovammo il seguente messaggio:


"brutto scherzo, regoleremo i conti".


Fu allora che Alex ed io andammo su tutte le furie: si trattava quasi certamente di uno scherzo. Settacciammo la configurazione dei radiotelescopi ma non sembrava esserci nessuna anomalia: erano inesorabilmente proiettati nello spazio più profondo; dunque controllammo tutti i cavi e le connessioni ma non c'era niente che facesse pensare ad un intrusione da parte di qualche sabotatore. Un vero e proprio enigma. Lanciammo un altro messaggio:


"alex e koran sono molto arrabbiati".


Ben due settimane dopo mentre dormivamo sulla moquette dell'ufficio ottenemmo la seguente risposta:


"...vorrei che alex potesse ancora arrabbiarsi...".


Quale agghiacciante risposta proveniva dal gelido e profondo spazio? Ribattemmo quasi subito


"chi sei?".


La risposta questa volta arrivò dopo qualche giorno:


"sono koran, chi sei tu? se alex potesse essere qui...".


Tutto questo andava oltre la nostra comprensione, eravamo proprio degli ingenui, pensammo ancora ad uno scherzo e fu così per noia che decidemmo di perdere tempo con quest'assurda situazione. Spedimmo un altro messaggio:


"se tu sei koran noi chi siamo? qui alex e koran".


Risposta:


"alex è morto. koran sono io".


Dunque si trattava sicuramente uno scherzo di pessimo gusto. Una sera Alex ubriaco ipotizzo che in realtà stavamo comunicando con noi stessi e che l'universo era uno specchio dove una volta raggiunti i suoi confini (nemmeno tanto remoti visto che il segnale rimbalzava in un paio di giorni) si attraversava una zona in cui era proiettato un altro universo ma con una traslazione temporale maggiore, in pratica si trattava del futuro. Ci ridemmo su e giurammo di scrivere un articolo su questo azzardo alcolico.

Accadde qualcosa che segnò la mia vita per sempre, dopo qualche mese Alex morì causa un incidente stradale e dopo il lutto ripresomi riprovai, preso dallo sconforto e dai fumi dell'alcol, a inviare un altro messaggio:


"alex è morto".


Risposta:


"lo so.".


Comunicai a lungo con questo remoto interlocutore e con il tempo collegai i fatti e mi convinsi che l'ipotesi di Alex non era affatto una buffonata e che probabilmente stavo comunicando con un me stesso proiettato nel futuro. Ahimè non avevamo preso in considerazione i suoi avvertimenti ma soprattutto Koran ovvero Io, dall'altra parte dell'universo probabilmente non si rendeva conto di stare parlando con il suo omonimo. Mi diedi all'alcool in maniera sempre più decisa e un giorno, un bel giorno diedi fuoco a tutto l'ufficio elaboratore centrale compreso perdendo così le preziose uniche e irripetibili coordinate di trasmissione.

Potete ora credermi un pazzo, ho ritrovato in un vecchio armadio pieno di appunti e scartoffie il diario di lavoro del mio vecchio collega Alex. Ho deciso di rendere nota questa faccenda che mai potrà essere provata o comprovata. Quello che voglio è vivere in pace ma a volte vorrei capire come le mie scelte passate abbiano influito sul mio futuro. Meglio non sapere.

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