Sono sempre stato una persona molto attenta, se per attenta si definisce una persona che fa caso ai particolari, anche i più piccoli. Non ho mai pensato di essere una persona che si discosti dalla media, ne per intelligenza ne fisicamente, devo ammettere però che ci sono un sacco di situazioni che mi danno fastidio, tra queste la cosa non potevo sopportare era il modo con cui mi guardava il fruttivendolo. Quel bastardo esercitava proprio di fronte al mio palazzo. Ogni mattina scendevo di corsa le scale, tenevo con i denti i miei guanti mentre mi davo da fare per allacciarmi il cappotto, una volta al piano terra facevo scattare la serratura elettronica e lui era li, dall'altro lato della strada, braccia conserte e sguardo disinteressato. Mi allontanavo correndo verso la fermata dell'autobus. In quel breve percorso sentivo un senso di colpa e l'aria farsi più pesante, se mi giravo distrattamente lui era li, a fissarmi beffardo, "bastardo!" pensavo ma non facevo a tempo ad imprecare a lungo l'autobus era sempre puntuale. La sera rincasando il negozio era quasi sempre ormai chiuso ma quando agivo sulla serratura di casa, ogni volta mi aspettavo un agguato un'imboscata una vendetta. Si, avevo la coscienza sporca, non che ora sia pulita siamo chiari ma all'epoca tutto era diverso. Per esempio quei luridi piedipiatti che vedevo passeggiare lungo il marciapiede ogni mattina sapevano quello che pensavo, inoltre la vecchietta che mi guardava dal finestrino dell'autobus pensava a me come un giovane dagli atti impuri. La signora che distribuiva le vivande in mensa era al corrente del fatto che non mi lavavo mai le mani dopo essere stato in bagno, per questo mi odiava. Mi odiava la cassiera del supermercato dove mi recavo abitualmente, lei sapeva che non rimettevo mai al suo posto la merce dopo averla valutata. I pompieri che vedevo passare mi guardavano storto dai finestrini dei loro autocarri, un breve ma intenso sguardo d'odio ed ira verso me e la mia abitazione dove probabilmente potevo essermi scordato di aver chiuso il gas. Al lavoro tutti mi odiavano, questo è matematico direte, non proprio. L'uomo che riforniva l'acqua mi odiava più di tutti: aveva capito che rubavo qualche goccia in più dalla bolla di plastica per riempire la mia bottiglia personale anziché usare un bicchiere, pagavo questa bravata con sguardi che sembravano ostentare l'omicidio. Il mio datore di lavoro mi punzecchiava in tutti i modi, per esempio una volta mi impose di finire il lavoro entro la fine della settimana dicendo che era importante per tutti, la pena era un'ingente perdita di danaro per l'intera società. Faceva così non perché si fidasse di me, ma perché così facendo avrebbe fatto in modo che tutti potessero odiarmi all'unanimità. Il colmo fu quando attraversando la strada sulle strisce pedonali un'auto quasi non mi investiva. Era un segno. Decisi così di mettere fine alla mia vita. Proprio qualche isolato più in la c'era un edificio a diciotto piani dal quale avrei potuto lanciarmi e porre fine a questo tormento. Innanzitutto dovevo essere pronto ad ogni evenienza, non dovevo fallire. Se l'ascensore che portava al tetto fosse stato fuori uso, allora avrei dovuto fare tutti i diciotto piani a piedi. Iniziai così ogni mattina all'alba un serrato allenamento per poter così affrontare tutti i gradini di quel palazzo in un sol colpo. Salivo e scendevo le scale del mio palazzo con ossessione, sudando e pompando sangue a più non posso. Ogni giorno miglioravo ma non avendo tempo di farmi una doccia andavo al lavoro ricoperto da un odore piuttosto sgradevole. Per questo venivo odiato ancora di più. Una notte vidi dalla finestra dell'edificio di fronte al mio palazzo un bambino fissarmi, sicuramente con odio, abbassai la tapparella per poi rialzarla a tratti ma era sempre li. Presi il cappello la giacca e mi lanciai fuori correndo tra i vicoli stretti dei palazzi e guardandomi di tanto in tanto alle spalle, come se avessi addosso il fiato di un assassino senza scrupoli. Corsi e mi fermai ansimando appoggiandomi ad un semaforo. Sentii una voce roca proprio dietro di me, - Amico cerchi qualcosa? Mi girai di scatto focalizzai dopo qualche istante un uomo – Amico parlo con te cerchi qualcosa? Lo fissai per alcuni istanti e replicai – Ti senti furbo e? Ti senti migliore di me con quel tuo sorriso beffardo e pieno di odio vero? Lo sconosciuto rise tra se e se e mormorò qualcosa. Lo presi di scatto e lo agganciai al muro, lui urlava si dimenava – Lasciami!, implorava. - Maledetto bastardo sei anche tu come tutti gli altri vero? Sei tu il padre di quel ragazzino che mi guardava dalla finestra vero? Sentii in lontananza delle urla, lasciai andare di colpo il poveretto e corsi quasi trascinandomi fino a casa. Mi risvegliai sul mio letto l'indomani.
Ricominciava la routine. Feci allenamento, lasciai dietro di me il fruttivendolo, incrociai nuovamente la vecchietta ma stavolta sull'autobus, ovunque ricevevo occhiatacce di acuto disprezzo. Chiusi gli occhi e volsi i miei occhi al palazzo venerandolo come un oracolo di pace e perdita di coscienza. Giunto al lavoro trovai una lettera con una proposta di licenziamento proprio sulla mia scrivania, sopra c'era scritto qualcosa che riguardava il mio stato psicofisico. Quei vermi volevano mandarmi a casa, lo sapevo che mi odiavano e firmai immediatamente liberandomi di quel peso. Non so esattamente dirvi cosa mi prese, questa volta non usai l'autobus andai a piedi, mi accorsi che la mattinata autunnale in contrasto con il grigiore delle ore precedenti si annunciava limpida, le nuvole si diradavano una ad una lasciando spazio ad un sole fresco e ad un'atmosfera pungente. Camminai minuziosamente lungo il marciapiede tracciando una traiettoria perfetta e osservando quanto più possibile le complicate strutture degli alberi ormai quasi completamente denudati dalle foglie. Nella chiamata pedonale l'attesa del semaforo era un momento per scrutare le auto proprio di fronte al mio naso, i loro conducenti. Raggi di sole di tanto in tanto riflettevano le vetrate dei palazzi creando oasi di luce sull'asfalto. Una volta a casa mi feci una bella doccia, calda ristoratrice lunga, impiegai poi tutta la mia buona volontà nel radermi e questo gesto sembrava suonare antico sulle mie membra. Uscii in accappatoio dal bagno, preparai con estrema cura la Moca e la misi sul fuoco, presi due fette biscottate un po' di miele, apri la finestra del piccolo cornicione che dava sulla strada, la cucina divenne più chiara e limpida. Il caffè sbeffeggiava come una motrice sul fornello, ne versai un po' sulla tazzina e feci colazione. Un istinto quasi automatico come fosse un'automazione primordiale mi spinse verso il mio computer, lo accesi, mi sentivo inondato da una frenetica voglia di scrivere, come una marea di creatività senza senso. Mi cambiai, il PC si era finalmente avviato, passarono poi minuti, ore senza fiato dove il respirare diventava relativo e solamente sufficiente se rapportato al flusso di parole che ero chino a digitare. Intitolai la mia breve opera “Diario di una persona attenta”. Ne stampai due copie, la prima la appoggiai sulla mia scrivania la seconda la portai con me, stretta sotto il mio braccio mentre salivo i diciotto piani di vertigine. Mi soffermo ora brevemente sul sole sfocato dal fumo di un camino scrivendo le ultime annotazioni a penna.
Le mie ultime parole:
Siamo il riflesso dei nostri sogni appassiti. Quanto è crudele la vita. Una grottesca corsa ad ostacoli pronta a fagocitarti in orribili tragedie. Per quanto mi riguarda cerco di stare alla larga da voi, eterni illusi, portatori di autorevoli dogmi provenienti da ogni parte del mondo. Venditori di false figurine.
che ansia mi ha trasmesso quest'uomo...bravo Ale!
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