Viaggio a Nord

Guidare mi ha sempre affascinato, anzi non proprio, posso dire che semplicemente mi è sempre piaciuto, non c'è stato giorno della mia vita in cui quando dovevo prendere l'auto mi sentivo svogliato. Ed è così che ogni Gennaio poco dopo le feste natalizie intraprendevo il mio viaggio verso nord per andare a trovare la vecchia e cara zia Carol. Il freddo non rappresentava un ostacolo. Per un buon canadese che si rispetti il freddo non può rappresentare un ostacolo. Adoro la guida, si ma sono prudente, non mi piace correre troppo, nemmeno andare troppo piano ma trovo bello condurre con stile l'auto un po' ovunque senza farsi prendere dal panico e godendosi il paesaggio. Anche questo è viaggiare. I bagagli erano ormai pronti, la mattina in cui partì era limpida e solare. Faceva circa quindici gradi sotto lo zero, non male ma dirigendomi a nord sapevo cosa mi aspettava. Caricai le catene, riempì un thermos di cioccolata bollente, un grande thermos affidabile e indistruttibile. Caricai una piccola scorta di viveri, non si sa mai quando si intraprende un lungo viaggio in strade semi desolate magari dominate dalla neve e da ghiaccio. Presi con me poi tutto il necessario per gli immediati lavori di manutenzione che potevano servire: un caricabatterie per auto, lampadine di scorta, una torcia a dinamo, delle corde, coperte pesanti, tre taniche di benzina, qualche litro di olio per motore, bocce d'acqua. Sembrava esserci tutto. Chiusi la casa, nel frattempo l'auto era già in moto e vedevo ergersi una colonna di fumo bianco proprio dal tubo di scappamento. Carol era già stata avvisata. Sarei sopraggiunto a casa sua dopo circa ventidue ore di viaggio, compresa qualche tappa qua e la. Partii dal vialetto di casa piano piano perché la strada era leggermente ghiacciata, mi mischiai nel traffico cittadino come un mazzo di carte in una partita di poker, attraversai la città e trascorsi qualche ora nel chiassoso traffico ma poi, imboccai l'uscita della statale e mi ritrovai in una strada che conduceva esattamente a nord con un traffico piuttosto modesto. L'auto era ben calda, mi accostai e decisi di togliermi giubbotto e guanti per una guida più confortevole. Ripartii, freccia a sinistra, immissione e via, raggiunta la quinta accesi l'autoradio ma non davano niente di interessante così mi lasciai guidare dal delicato pianoforte di Erik Satie. Ogni tanto occorreva qualche sorpasso, qualche tir piegato dal vento freddo e dal gelo arrancava lungo qualche salita, erano facili prede da superare. La strada era piuttosto pulita il sole ora si scagliava nel cielo senza fare complimenti. Mi fermai a fare pipì, poi ripartii, durante la guida mangiai qualche dolcetto che mi ero preparato, continuavo a guidare prendendo le curve dolcemente andando tranquillo godendomi l'infinita e sterminata quantità di neve che si rifletteva sui miei occhiali da sole. Mi alternavo tra colline pezzi di pianura, alti e bassi in mezzo alle conifere piegate dalla neve. Dopo qualche ora di viaggio pensai che era ora di bere un sorso di cioccolata calda così svoltai su una piazzola di sosta scesi dall'auto, misi il giubbotto, guanti e bevvi un po' di quel liquido rovente volgendo lo sguardo al bosco proprio di fronte a me; mi rilassava. L'aria era pungente fredda freddissima e le conifere così solitarie. Poi ebbi un incontro insolito, un'alce, si posizionò a circa trenta metri da me e mi fissava, mi fissava solenne, il suo respiro si faceva nebbiolina e poco dopo se ne andò. Ripresi il viaggio mi fermai per pranzo feci rifornimento, e poi mi lanciai di nuovo fino a sera. Cenai in una piccola casa ad un lato della strada, una specie di osteria vicino ad una pompa di benzina. Quando andai a riprendere l'auto dall'altra parte della carreggiata vidi un'altra alce che per qualche motivo mi sembrava essere identica all'altra, almeno, nel suo modo di fare beffardo, guardandomi con insistenza, masticando, sbuffando, per poi andarsene senza che io contassi più nulla. Ripresi il viaggio con qualche perplessità, su e giù per le colline, su e giù per piccoli monti, sempre un po' in salita, sempre verso nord, ammirando a ovest per quanto potessi scorgerlo, il tramonto rovente e i riflessi sulla ionosfera degli ultimi raggi di sole. La penombra, i miei fari ancora erano meno lucenti della sagoma lucente surreale che avvolgeva il panorama, poi ad un tratto il buio. Il luccicare dell'asfalto, spesso mi dava l'impressione che un'invisibile lastra di ghiaccio si fosse formata ma poi qualche mezzo spargisale mi faceva capire che ero ancora al sicuro. Prima o poi un tratto di strada peggiore mi sarebbe capitato, come tutti gli anni, del resto.

Il cielo sembrava limpido, sgattaiolai su diversi tornanti arrampicandomi come una lince, salendo scendendo, sciogliendo i nodi della strada, attraversai strade a strapiombo che si ergevano sopra fitti boschi di conifere dormienti come soldati in attesa di affrontare un battaglione l'indomani, quasi un sonno soffocato e la neve che li teneva pressati, questi soldati, i loro rami pesanti, quasi collassati e mi sembrava di dover fare piano. Mi sembrava di dover andare piano per non svegliarli. Poi ad un certo punto il cielo si annuvolò, in realtà più velocemente del previsto, il termometro segnava trenta gradi sotto lo zero ma quando iniziò a nevicare ne segnava dodici circa. La neve scendeva fitta e decisi di fermarmi per montare le catene. La strada che avevo preso non era più molto battuta e c'erano già strati di ghiaccio e neve qua e la. Mentre pazientemente montavo le catene proprio dal ciglio della strada apparve un'altra alce, io ero chino e mi fece paura guardarla da quella posizione. Era mastodontica. Mi guardava quasi criticandomi mi guardava con quegli occhi lucidi, masticando, ma il suo respiro non si faceva più nebbia. Mi alzai e lei scappò via. Allora entrai in auto sbattendo la porta mi chiusi dentro, mi batteva forte il cuore. Forte fortissimo. Sentivo l'adrenalina corrermi lungo le vene fino al cervello. Di impulso montai le catene più velocemente che potevo e partì di nuovo. Non ero sereno, ogni tanto avevo l'impressione di correre troppo, ogni tanto mi sembrava di sbagliare marcia. Poi dopo qualche ora mi calmai, avevo un po' di sonno ma non volevo di certo interrompere la guida. Non potevo fermarmi ora, la neve mi avrebbe completamente ricoperto e chissà io che fine avrei fatto, magari morto asfissiato dagli stessi fumi incombusti del mio motore. La neve sembrava sempre più fitta, più alta, le previsioni però non parlavano di una tormenta, avevo l'impressione di aver sbagliato strada ma continuai. Mi fermai per controllare la cartina, la direzione sembrava giusta. Continuai. E continuai ancora. Poi ripensai all'alce, e sulla mia mente riaffiorarono molti ricordi, alcuni sensi di colpa che pensavo smarriti, ansie, e poi un fatto. Una cosa che andava sistemata, un rimorso. Possibile che l'alce potesse collegarmi a tutte queste cose? Probabilmente era solo l'ansia causata dal maltempo. I tergicristalli ogni tanto stridevano e si muovevano repentinamente contro la neve che fioccava a palate sul mio parabrezza. L'odore di umido penetrava dalle guarnizioni dell'auto, sentivo il freddo salirmi ai piedi e regolai di conseguenza il riscaldamento. Un rimorso si, qualcosa che andava sistemato. Poi di colpo, quasi come un sasso piombato dal cielo mi trovai l'alce, e giuro era sempre lei, l'alce a sbarrarmi la strada, inchiodai sbandando e mi fermai di lato proprio a qualche centimetro dal suo muso. Per poco non finivo fuori strada. E mi guardava, guardandomi respirava sbuffando e ben presto si creò condensa sul mio finestrino. Sparì in un baleno.

Rimisi incredulo l'auto in carreggiata e il cuore pompava più sangue di quanto può fare un pozzo petrolifero in piena attività. Appoggiai la fronte sul volante, poi il rimorso si fece lacerante quasi un incubo e l'ansia mi strinse sulla sua morsa agghiacciante, avevo caldo avevo freddo. Ripresi la guida verso nord iniziando a pensare come poter mettere fine a quel rimorso. Le cose andavano sistemate. Si sistemate, piansi, mentre guidavo, urlai contro il parabrezza, imprecai, sudai e presi una decisione. Tutto ad un tratto mi sentii meno pesante, il cielo si era aperto ora. “Si farò così” mormorai tra me e me. Poi l'alba, sorridente abbagliante lungo una discesa lunghissima, ero un po' in ritardo sulla tabella di marcia e ricordo che ridevo e urlavo piangevo ringraziavo la vita e pensai “sono arrivato, zia Carol sono qui sono io e sono io come non lo sono mai stato”.

Il mio amico

In quel periodo, mi piaceva rifugiarmi nel bosco invece di fare i compiti di scuola. Non dovevo fare altro che tornare a casa, riporre lo zainetto pranzare e poi erano due le cose che colmavano la mia solitudine. La TV, o il verde che avvolgeva la mia casa. Della TV ben presto mi stufai. Mamma lavorava duro per mantenermi ed era via fino a sera, mi faceva trovare sempre il pranzo pronto bastava riscaldarlo nel microonde. Ogni giorno prima dello scoccare della campanella guardavo fuori dalla finestra dal mio banchetto aspettando che la lezione finisse, scrutavo gli alberi gli abeti i larici e i castagni che ancora non avevano perso le foglie. Eppure l'autunno era arrivato. Eppure ogni giorno dovevo colmare quel vuoto e mi spingevo dentro il bosco, fitto per non ricordarmi che la scuola era iniziata, per dimenticare i miei compagni di classe che per me non erano tanto diversi da delle figurine animate. Esploravo ogni giorno nuove zone, riferivo tutti i particolari su una cartina molto approssimativa ma mi faceva sentire speciale fare l'esploratore. C'erano tante cose interessanti nel bosco, funghi dai colori più strani, insetti di tutti i tipi, l'odore del legno fradicio era pungente e quando c'era un po' di vento la foresta cantava, come un vecchio signore accaldato che sente la brezza. Ma tutto era insipido se paragonato a quello che doveva accadere dopo. Lui, il mio amico, lo conobbi a ricreazione mentre osservavo uno strano sasso insolitamente liscio che avevo ritrovato il giorno prima nel sottobosco. Sembrava fosse molto interessato al mio sasso e così iniziammo a parlare, scoprii ben presto che quel ragazzino stava seduto ad un banchetto di qualche classe più in la rispetto alla mia. Inizialmente i nostri incontri si limitavano alla ricreazione, e devo dire, che mi affascinava. Era molto sicuro di se, si distingueva dagli altri ragazzini, sembrava essere pieno di un'energia a me ignota. Non ci volle molto perché lo invitassi a casa, il pretesto era di fare i compiti del dopo scuola ma in realtà entrambi ogni volta ci perdevano nei discorsi più disparati. Si parlava dei professori, si parlava delle nostre famiglie, ma poi un giorno quando tutti i discorsi fatti erano saturi e ovviamente i compiti erano ancora da finire gli proposi di seguirmi nel bosco.

Il bosco allora mi sembrava prendere una nuova vita una nuova forma, ciò che avevo già visto e rivisto con lui al mio fianco prendeva una piega inaspettata, una nuova storia come se avessi avuto occhi diversi. A volte non mi sembrava più lo stesso bosco e i colori dell'autunno che ormai lasciava posto all'inverno non sembravano nemmeno più gli stessi. Poi, il tempo passava e inesorabilmente volgeva la sera, lui doveva andarsene, a casa sua intendo. In quell'istante ritornava dentro di me un vuoto, la malinconia la tristezza. Lui era il mio amico era diventato il mio punto di riferimento e davvero, ero solo un piccolo ragazzino ma la vita sembrava meno amara con lui. I suoi punti di vista mi affascinavano a tal punto che prima di addormentarmi facevo l'elenco delle cose che avrei potuto analizzare insieme a lui. Un giorno, avvenne un fatto particolare, un mio compagno di classe, mi confidò che lui il mio amico, il mio carissimo amico aveva una brutta reputazione. Giravano voci che era un po' violento e che non era un tipo di cui fidarsi; poco raccomandabile insomma. Queste voci vennero al mio orecchio durante una settimana in cui egli fu costretto a casa per l'influenza. Stetti abbastanza male per quelle affermazioni ma non andai a trovarlo perché non avevo mai messo piede in casa sua. Finalmente un pomeriggio lui si presento davanti l'uscio di casa mia e bastò la sua visione per rendermi conto che non me ne fregava niente delle chiacchiere che avevo sentito. Lui era il mio amico e io mi ci trovavo bene, lui mi confortava mi dava la sicurezza che mi calmava. Colmava i miei pomeriggi e sapevamo parlare di mille cose. Cosa importava se qualcun altro mi aveva messo in guardia? Da cosa poi? Arrivò l'inverno, ci divertivamo con la neve, purtroppo i voti però non si alzavano dall'insufficienza ma noi non ce ne curavamo poi molto. Mia madre non aveva tempo di andare a parlare con i professori, quanto ai genitori del mio amico, beh devo confessare che non li ho mai visti, me ne ha sempre parlato con un gran interesse ma spesso ho avuto l'impressione che mentisse. Non importa io non volevo indagare a me bastava lui, che lui mi venisse a trovare e potessimo passare insieme dei bei pomeriggi spensierati. Fu così fino al protrarsi della primavera, il Natale, festa tanto attesa quell'anno passò in secondo piano. Mi interessavo solo al mio amico. Ricordo che un giorno venne a trovarmi con una stecca di cioccolata nuova nuova, non so dove l'aveva presa ma mi commossi quando seppi che voleva dividerla con me. Eravamo fuori da tutto e da tutti io e lui, il tempo scorreva, il mondo poteva anche essere un fetido posto in cui vivere ma bastava ci fosse lui con me. E poi il mondo non può essere mai fetido con un amico così. Durante la primavera facevamo lunghe passeggiate, lunghe lunghissime, le giornate si stiracchiavano l'aria era frizzante e tiepida, le pagine dei nostri quaderni sempre bianche ma andava bene così. Andò bene così fino ad un certo punto perché poi quando giunse l'estate fummo entrambi bocciati, non mi resi immediatamente conto delle conseguenze di ciò. So solo che un giorno lui, venne da me ed era molto triste, mi ricordo che non avevo il coraggio di parargli di chiedergli nulla. Ci salutammo la sera con malinconia. Il giorno seguente non si presentò e non si presentò mai più alla mia porta e io come uno stupido l'avevo capito che sarebbe finita così. E lui, il mio amico, non l'ho più rivisto, ora so, che avrei dovuto indagare maggiormente sul suo conto, ora sono più maturo e mi rendo conto che non dovevo lasciarmelo scappare, le parole non dette mi bruciano. Quel vuoto da colmare dentro di me c'è ancora ma ora che sono uomo avrei tanti modi per colmarlo, l'odio, l'alcool, la droga il fumo. Per fortuna mi tengo lontano da tutte queste cose, forse questo mi differenzia da tutti i miei ex compagni di classe cresciuti e spero che questo differenzi anche lui, il Mio Amico.

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